Artifici

Artifici

1993  Torino.  Associazione Culturale “il salto del salmone”.      “Artifici”

1) La fotografia non vede ciò che l’occhio vede.
2) La fotografia vede ciò che l’occhio non vede.
3) La fotografia non vede come l’occhio vede.
4) La fotografia scarta la scrittura, cioè la traccia del corpo.
5) La fotografia elude la rappresentazione; mentre sviluppa la documentazione.

Di fotografia ignorantissimo e sospettoso, mi annotai questi punti in occasione del primo incontro impegnativo con la fotografia, che fu per me “Combattimento per un’immagine” del ’73, presso il Museo d’Arte Moderna di Torino.   
A distanza di parecchi anni una serie di fotografie (tali rigorosamente le opere di Roberto Goffi, anche quando la stampa sia realizzata su inconsueti supporti) mi sorprende ancora, tanto più accompagnandosi con una poesia di Eugenio Montale, che ne fornirebbe la chiave.  (chissà che i suggerimenti mediati e immediati di Goffi non mi aiutino a sciogliere, almeno per il caso specifico, il dubbio sospeso). 
Si sa che una delle tendenze imboccate dall’arte moderna è quella che insiste sulla contrazione (concentrazione) del dialogo uomo-natura, fino al punto di far dubitare che non di dialogo si  tratti, ma piuttosto del raddoppio più o meno speculare di uno dei due termini interlocutori. La tendenza, a pensarci, non è così nuova, ma forse perseguita ora con particolare vigore ed intransigenza. La fotografia, invenzione relativamente recente, è stata spesso assunto come un esempio fra i più evidenti del prevalere delle ragioni “esterne”, all’origine (o a compimento) di una rivoluzione che avrebbe scisso l’immagine in due direzioni irrecomponibili: il documento da una parte, la testimonianza dall’altra.   
Prima di utilizzare le indicazioni di Goffi, mi viene di eccitare un più remoto caso di “realismo”. Intorno al 1615 Giuseppe Ribera, appena giunto in Italia dalla Spagna dipinge un’Allegoria della pittura nella quale introduce alcuni elementi che non possono essere interpretati che rispetto all’aroma di Galileo e di Caravaggio: un paio di occhiali e addirittura un cannocchiale. Non è certo la prima volta che un pittore segnala l’utilità di strumenti che potenzino la vista, (cominciano a comparire perfino autoritratti con lenti) o di artifici che servano ad individuare e fissare aspetti altrimenti sfuggenti del “reale” (specchio e derivati) o di metodi di trascrizione o ricalco meccanico, ma probabilmente che la prima volta che il desiderio di conoscenza e di rappresentazione si proietta così chiaramente sugli strumenti “mediatori”, che sembrano chiamati non più a favorire il confronto uomo-natura, invece a segnare una separatezza, una difficoltà, una distanza che non può essere coperta altrimenti; così che l’atto conoscitivo si atti adeguando tanto l’uomo quanto la natura alle misure oggettive, equidistanti, fissate dagli strumenti. Che infatti non servono a cancellare la distanza, al contrario ne prendono atto, e analizzano la divaricazione; come a dire che operano sulla struttura della distanza, anziché abolirla a vantaggio di uno dei termini.   Suppongo che la fotografia (quella che mi interessa qui) si ponga sul filo della intuizione caravaggesca.
La poesia di Montale che Goffi mi propone lo conferma. Leggo:
“Vedi, in questi silenzi in cui le cose 
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura, 
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità”.
(“I limoni”, da “Ossi di seppia” di Montale).
Mi sono permesso di sottolineare alcuni punti, che specialmente identificano un “vedere” estraneo alla osservazione tanto più alla contemplazione, indiscretissimo, che, appunto, cerca di sorprendere la “realtà” di scardinare l’immagine forte che natura e intelligenza avevano pattuito, approfittando – come ancora suggerisce Montale – del rilassamento che coglie a momenti la natura (“quando il giorno più languisce”), di certe fughe di energia (“nel profumo che dilaga”), di certi cedimenti di compattezza e di tensione; usando anche la strategia degli slittamenti dimensionali (quelli che già consentirono per esempio a Gulliver di scoprire le smagliature dei sistemi possibili). Che la fotografia possa essere uno strumento di particolare efficacia, che permetta di divaricare strutture che paiono assolutamente compatte, di scandire flussi che l’occhio naturale giudica senza soluzione di continuità, di fissare come stati contigui nel tempo e nello spazio variazioni infinitesime che i sensi nemmeno coglievano, di documentare in positiva sequenza ciò che solo alla freccia del pensiero o del sentimento riusciva di intuire: tutto ciò pare più che plausibile, evidente. Addirittura non è strano che a qualcuno sia parso mezzo efficace per afferrare l’anima e lo spirito o almeno le loro manifestazioni più fuggevoli e inquietanti. Come a dire una tecnica per acchiappare i fantasmi, cioè gli stati più labili e mutanti; anche per cogliere in atto le forze che interagiscono, le energie che attraversano la materia, “…i silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata divinità…”

Pino Mantovani,  1993

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