Il Sonno della Ragione

IL SONNO DELLA RAGIONE

Immagini dalla mia esperienza di soldato di leva
Agosto 1974 – Settembre 1975

7° Reggimento di Artiglieria da Campagna, di stanza a Torino, alla caserma Morelli di Popolo

Questa è una documentazione insieme affettuosa e critica dei tredici mesi del mio servizio militare, iniziato una settimana esatta dopo la laurea in Architettura: la cartolina precetto mi era stata consegnata proprio mentre rilegavo la tesi di laurea.
Quindi mi sono trovato, a ventisei anni, in una bolgia di diciottenni provenienti da tutta Italia, pieni di energia e allegria, stipati nel primo mese in camerate con letti a castello (se non ricordo male 32 ogni camerata). Per molti era la prima volta che vivevano fuori casa, erano eccitati e in tensione, e bisognava trovare modi di convivere decentemente insieme: ricordo la difficoltà di capire certi ragazzi che parlavano un dialetto napoletano o calabrese stretto e molto aggressivo o un italiano con una inflessione dialettale fortissima. Ricordo i diversi modi di stare insieme rispetto a noi del nord, e le cantate per metà della notte quando eravamo morti di sonno.
Dopo i primi giorni di smarrimento e ambientazione in questa rigida e regolata realtà a me aliena – ero entrato in Architettura a Torino esattamente nel ‘68 nel pieno delle occupazioni, ed era stato un  primo salto gigantesco dal liceo  serio e inquadrato – ho incominciato a portare in caserma la mia vecchia Nikon o in alternativa un’antichissima Leica sbrecciata, perché questo è stato sempre il mio modo per entrare in contatto con gli altri.
Allora nessuno faceva fotografie, e i miei commilitoni erano felicissimi di avere delle immagini fatte in caserma da spedire alle famiglie e alle fidanzate. Essendo poi a Torino, con una camera oscura a portata di mano, anche con le magrissime risorse economiche disponibili riuscivo ad accontentare gli amici. Piano piano, fotografando anche gli ufficiali, ed essendo sempre per natura molto discreto, mi sono trovato nella condizione di poter fotografare liberamente anche quello che mi colpiva, ma puramente per memoria mia, senza nessuno scopo particolare. 
Infatti solo alcune di queste immagini sono sono state viste da pochissimi amici, e mai fatte conoscere al di fuori di questa cerchia.  Anche se allora non c’erano problemi di privacy con le persone, comunque si trattava di strutture militari e di organizzazione di vita militare, quindi erano immagini per loro natura problematiche.
C’era anche il problema grosso di far passare il tempo, che in caserma si dilatava a dismisura, e di trovare dei terreni neutri dove far intrecciare mondi anche agli antipodi: a pensarci ora,  la cosa più positiva di tredici mesi di coabitazione forzata con ragazzi di estrazione sociale e origini diversissime è stata proprio dover imparare a smussare gli spigoli, che potevano essere anche molto acuti.
Alcuni nel reggimento sono crollati e hanno passato mesi veramente bui, ma in genere si sopravviveva più o meno allegramente, soprattutto perché generalmente a diciott’anni non ci si pone molti problemi; ma chi come me aveva più di venticinque anni (e non aveva neanche tentato di fare l’allievo ufficiale perché detestava sia comandare che ubbidire) pativa parecchio.
Le immagini in questo volume si dividono in cicli: il primo riguarda il sonno.
Per difenderci dallo stress o occupare il tempo o recuperare energie – non si dormiva molto la notte, si chiacchierava fino a tardi – molto del tempo libero dopo pranzo era occupato dalla pennichella. Ma i nostri letti erano dominati dal famigerato cubo, un parallelepipedo costituito dal materasso (generalmente bitorzoluto, ma reavamo giovani e si dormiva su qualsiasi superficie) ripiegato in due con dentro il cuscino e sopra nell’ordine una prima coperta militare ripiegata, le ruvide gelate lenzuola piegate più o meno bene, e il tutto avvolto accuratamente nella coperta militare famosa per la sua ispida lana e per la scarsa capacità a scaldare: questa capacità termica era terribile in inverno, visto che le camerate non avevano riscaldamento e la temperatura scendeva anche a 5 /6 gradi per mesi. I giovani devono temprarsi, ma io per sopravvivere mi ero portato, unico del gruppo, un vecchio sacco a pelo di piuma d’oca (ironia della sorte: dell’esercito americano…) e dopo lunga battaglia ero stato autorizzato a usarlo.
Comunque, se c’era qualche letto vuoto bene, altrimenti l’alternativa era disfare il cubo poi rifarlo nuovamente (orrore!) finita la siesta oppure dormire appoggiati al cubo, e visto lo spazio disponibile, generalmente in posizione fetale.
Fra le foto simbolo di questa mia piccola epopea ci sono quelle dei miei commilitoni che dormono sotto i lenzuoli, come cadaveri in sudari: eravamo in polveriera, in un paesino dell’Appennino fra Tortona e Piacenza e le zanzare erano affamate.
Impressionante anche la serie effettuata durante un’esercitazione, con i soldati che sembrano caduti in battaglia piuttosto che ragazzi durante la pennichella.
All’apertura della sezione successiva, un momento preciso in polveriera: la mezzanotte della notte di Natale del ‘74, con la guardia appena smontata dalle due ore di ronda sotto la neve che cerca di scaldarsi con una tazza di caffelatte bollente senza neanche togliersi il pastrano. Sullo sfondo l’albero di Natale che avevamo fatto: non mi ricordo però se Babbo Natale si era ricordato di portarci dei doni.
Poi le immagini che riguardano un campo che abbiamo fatto al poligono di tiro del Montoso: alcuni giorni acquartierati in una struttura fatiscente per l’unica volta in cui abbiamo sparato alcuni colpi con le artiglierie, i nostri cannoni da campagna 155/20. Camerate assolutamente spartane, materassini gonfiabili tutti per terra, gomito a gomito: fortunatamente c’era bel tempo ed eravamo ormai amalgamati e affiatati.
Come esempio del successo dell’omologazione l’immagine di tre artiglieri colti per strada, fuori dai ranghi ma tutti e tre in perfetta sincronia di marcia, mano destra a reggere il sacchetto, la sinistra in tasca: assolutamente come in fotocopia.
Indicative della mentalità militare le immagini del giorno della festa delle Forze Armate, i primi di novembre: per mantenere linde e immacolate le camerate e le mense, i pasti erano distribuiti su tavoli posti nei garage dei camion e dei trattori, fuori dalla vista dei visitatori, che avevano così l’idea di una caserma efficientissima, ordinatissima e immacolata (dopo un mese di ridipittura e pulizia a fondo, in cui tutte le nostre energie erano state impiegate in questa operazione bellica di restyling).
Le cucine, gigantesche fabbriche di cibo per quasi seicento persone, pentoloni sollevabili solo con argani, teglie smisurate da lavare con qualcosa che ricordava la soda caustica (e non c’erano guanti) in quella cosa faticosissima che era la corvée: untume dappertutto. 
Tutte le settimane si ripeteva ciclicamente il menu, per tutti i tredici mesi, praticamente con pochissime variazioni per la stagionalità, e sempre con gli stessi sapori. Ma mi ricordo un ragazzo di borgata romano, di famiglia poverissima, a cui pareva di essere in paradiso con i pasti garantiti tutti i giorni, e abbondanti e nutrienti: ha cercato inutilmente di riaffermarsi.
Durante il servizio di guardia nei vari depositi, che durava sempre due settimane, ci si aggiustava un po’ alla buona, anche su stufe a legna. Ma l’appetito non mancava mai, anche perché il servizio consisteva in due ore di ronda intorno al perimetro del deposito, quattro ore di riposo, due ore di ronda, e avanti così per quindici giorni, giorno e notte, con un giorno di riposo completo. In un deposito carburante ho registrato tutti i percorsi, totalizzando 363 km nelle canoniche due settimane.
Un paio di volte la settimana si poteva fare la doccia, in un locale saturo di vapor acqueo, una faccenda molto allegra e cameratesca.
E per finire, la notte del congedo, in cui le camerate hanno subìto la nostra rabbia repressa, sono stati smontati tutti i letti, i cubi, le scarpiere in una furia liberatrice e con un unico universale grido:    

                                                                                                 è finita!

Roberto Goffi, 2020

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