“Opere 1998/99 – Ritratti”. Galleria Salzano, Torino 1999

LA PIETAS EVERSIVA DEI DAGHERROTIPI

La firma di Roberto Goffi è ampiamente apprezzata in calce a servizi fotografici di comprovata professionalità, specialmente applicati alla documentazione di manifestazioni artistiche torinesi e piemontesi. In questi contesti è sigla affidabile, e tuttavia rigorosamente incapsulata nelle convenzioni dei generi.Tutto ciò ha a che fare col valore d’uso della fotografia, una delle poche forme di scambio simbolico dei nostri tempi che possa reggere il paragone con antiche forme d’uso dell’arte. Dunque Goffi è fotografo torinese e italiano di riconosciuta eccellenza professionale, e tuttavia questo ruolo non esaurisce il rapporto che egli intrattiene con la pratica fotografica.Potremmo risalire al momento fondante di questa esperienza quando il futuro professionista è ancora entità potenziale che si mette alla prova attraverso uno strumento-giocattolo. E’ accaduto a tantissimi, ed è esperienza che di solito si conclude con l’acquisizione definitiva di un qualunque ruolo professionale; in Goffi, per tutta una serie di concause, quella esperienza ha finito per fare da tramite e provocare una specie di discesa agli inferi del quotidiano.Mi riferisco a foto che i visitatori di questa galleria hanno potuto vedere circa un anno fa, immagini di accidia e deriva in un contesto di vita militare, vita immobilizzata e sosta costretta, dove i corpi diventano ingombri, pesi morti, anche per chi li abita. In quelle foto la vita militare è pretesto e causa scatenante, mentre conta lo scavo negli interstizi dell’ordine quotidiano che rende visibile la soglia e il momento in cui un movimento si interrompe per far irrompere l’insensato, uno stato d’animo di ‘domenica della vita’.
Credo che quell’interstizio sia il tema delle foto di Roberto Goffi, protagonista anonimo e del tutto confondibile della scena quotidiana, lavoratore affidabile e cittadino ligio. Allo stesso tempo, uomo munito di vita interiore decisamente orientata a combaciare con questo super io e allo stesso tempo continuamente tentata dalle zone sotterranee. Una vita interiore rimasta (come per quasi tutti) per lo più silente e intermittente, finita anche, talvolta, a intrupparsi in chiese, associazioni e riti, ma che ha comunque trovato adeguato modo di misurarsi con gli stati di consapevolezza e autoauscultazione individuali, accumulando una pericolosa memoria di sé.
Provo a ripercorrere la memoria che ho delle foto di ‘ricerca’ di Goffi e accumulo serie di scatti notturni, immagini solitarie, ritagli su spazi marginali e derive. Se, per successione temporale, scatti pubblici e scatti privati dovessero sommarsi sullo stesso rullino, a immagini di inaugurazioni, opere d’arte, macchine, architetture e cerimonie, si accosterebbero questi inaspettati squarci notturni e solitari. In tutti i casi, in nessun modo la persona dell’uomo e del fotografo entra in guerra con l’abito dell’uomo comune e buon cittadino. Allo stesso tempo le foto che escono dalla macchina fotografica di Goffi tendono ad accumulare scorie non percepibili a occhio nudo, documentare ossidazioni e muffe, trasformazioni e trapassi non prevedibili dagli strumenti di rilevazione e dai protocolli standardizzati e l’ammasso di residui e scarti, materiale impoetico e amorfo, resta costituzionalmente derubricato da ogni forma d’uso, struttura linguistica e interpretazione. Il lavoro più intimo di Goffi tende all’entropia e alla mise en abîme, esito del resto non raro nelle esperienze di questo secolo.
Questa polvere e deposito di materie non compare mai da sola, si raccoglie in presenza di filtri e in conseguenza della predisposizione di condizioni adeguate. Occorre montare il laboratorio, come nella sperimentazione scientifica. Ora anche i ritratti di questa mostra configurano un procedimento intenzionale costruito con meticolosa precisione. Proviamo a risalire brevemente alle premesse che ne hanno guidato la realizzazione.
Luogo. Lo spazio di realizzazione dei lavori di questa mostra è una cantina in un quartiere popolare di Torino. Quartiere di case impoetiche -accumuli successivi e non coordinati- di strade semivuote e cortili desolati che conservano residui di giardini, viti rampicanti, orti. È il posto dove ha abitato la famiglia del fotografo e la cantina è stata il laboratorio di sartoria dove il padre ha lavorato per decenni. Su e giù per le scale e i corridoi, dentro e fuori dai portoni e nei cortili si sono accumulate operazioni previste dal lavoro della vita quotidiana. Secondo il medesimo protocollo di ordine ed efficienza silenziosi si è disposto il ricambio generazionale e l’adeguamento al mutare della vita: attorno alla cantina, al cortile, al portone e alla strada le cose sono cambiate nei decenni (anche se negli ultimi anni sembrano irrealisticamente immobilizzate, come in un incubo), ma i gesti e  i riti che vi si sono celebrati hanno presupposto, come sigillo pregiudiziale, ripetizione, normalità e regolarità.
Doppio ritratto con il padre. L’uso degli spazi cambia, la sartoria diventa laboratorio fotografico (anche il padre fotografava, da dilettante), però nella successione si realizza una specie di entropia come se gli spazi imponessero la loro legge a priori, vincessero le volontà dei singoli. È su questa catena preordinata che, a un certo punto, Goffi introduce una diversione insensata: realizza un doppio  ritratto di sé con il padre, dove padre e figlio compaiono nudi davanti all’obiettivo. Si tratta inoltre di una curiosa fotografia, perché l’impressione finale non è fissata in positivo cartaceo, ma come dagherrotipo.
Dagherrotipi. Sulla scansione inesorabile della freccia del tempo viene operato un doppio storno: prima padre e figlio sono portati a un’intimità irrituale, poi questa loro sembianza è portata alle forme di una temporalità estranea alla biografia di ambedue, quasi sottratta alla loro appartenenza al tempo.
Il dagherrotipo sta nell’infanzia del rituale cruento che è la fotografia. Il fatto che la tensione eversiva di questo strumento conoscitivo sia ora ingabbiata negli usi codificati e nella ripetizione ossessiva ne occulta ma non ne elimina la violenza. Ma riportare l’atto rituale alle sue forme originarie serve a risvegliarne la tensione compressa.
La produzione di un dagherrotipo è qualcosa di più di una operazione archeologica e citazionista perché ad essere coinvolta è una tecnologia laboriosa e difficile e, non bastasse, anche fortemente nociva. Da una restauratrice di fotografie antiche ho sentito dire che produrre dagherrotipi è oggi praticamente impossibile, ma io sono venuto a conoscenza almeno di un altro caso, oltre a quello di Goffi. Proiettando i dati a mia disposizione potrei avanzare l’ipotesi che ogni regione media dell’Occidente contenga un potenziale produttore di dagherrotipi operante e semisconosciuto. Nel caso la stima risultasse attendibile, non si tratterebbe di archeologia di una tecnica o di nostalgia, ma il più delle volte di comportamenti sciamanici residuali.
Infatti, una volta tirato  in questione, il dagherrrotipo sprigiona un fascino irresistibile: è questione di specchi, illusione e incantamento, della magia del catturare, con l’aspetto, l’anima di cose e persone. Potendo fare un paragone nella storia dell’arte, il dagherrotipo potrebbe essere assimilato al ‘fondo oro’ in pittura: mimesi della realtà fatta in tangibili trapassi chimici e infinite invenzioni non standardizzabili, che però risultano determinanti per il successo delle operazioni.
Dunque, una lastra di metallo viene immersa in un bagno d’argento, sfruttando l’attrazione esistente tra le due materie. La pellicola così prodotta, una volta lucidata, si trasforma in uno specchio perfetto. Dopo questo primo sposalizio, se ne provoca subito un secondo, questa volta tra l’argento e lo iodio che evapora dai sali di iodio. In questo modo sulla superficie specchiante si deposita una pellicola di ioduro d’argento. Allora bisogna procedere a un’ulteriore unione chimica, ma non senza aver prima inframmesso il fatto centrale e scatenante, l’incontro tra lo ioduro d’argento e la luce (la pratica, è noto, deve essere realizzata in determinate condizioni, in una camera oscura quale che sia): la parte impressionata, infatti, a quel punto diventa disponibile, se esposta al mercurio, a trattenere i vapori, i quali formano una superficie opaca sullo specchio lucido dell’argento. Ecco realizzata la magia, appena appena percettibile e del tutto precaria (basta una ditata, e l’equilibrio di parti lucide e opache che formano l’immagine, si perde) della cattura dell’immagine delle cose. Ora bisogna togliere lo ioduro d’argento delle parti non impresse e stabilizzare il mercurio (attraverso altri legami e sposalizi chimici) e l’ombra realizzata dallo scarto tra lucido e opaco è bloccata definitivamente. È una fotografia quella? Lo è letteralmente: ‘scrittura di luce’; ma è fantasma inafferrabile e sempre cangiante. Comunque ci si posizioni davanti, l’immagine passa senza soluzioni di continuità dal negativo al positivo in un moto percettivo che è impossibile fermare. Per l’occhio umano è una illusione insuperabile: se a colpire lo specchio d’argento è la luce, l’ombra opaca di mercurio risalta come macchia scura e l’immagine è percepita in negativo; se, invece, specchia una superficie scura, la pellicola di mercurio risalta in chiaro e l’immagine risulta positiva. Il successivo bianco e nero fotografico, rispetto a questa macchina, è una riduzione infinitamente abbreviata e contratta.
Retrocedendo il doppio ritratto adamitico di se stesso col padre nello stato nascente della fotografia, Roberto Goffi è di fatto debordato oltre i recinti delle leggi naturali, creando una piega, un luogo che non esisteva. Il gesto nasce certamente come impulso di pietas, atto squisitamente religioso sulla spoglia paterna, ma allo stesso tempo non può impedirsi di diventare atto sacrilego ed eversivo. Portando il corpo paterno, attraverso la riduzione alla nudità, come il proprio, alla stregua di forme reificate e infilando entrambi nella catena chimica di unioni genetiche del processo originario della fotografia, il fotografo è come se rinnovasse artificialmente il processo generativo. Lo fa sul materiale dei simulacri, ma lo fa anche invertendo l’ordine naturale, assumendo su di sé il potere di (continuare a) dar vita al proprio padre, gesto al contempo religioso e sacrilego. Esso chiede perciò ossessivamente di essere circoscritto e allontanato.
Messinscena. A questo punto entrano in gioco operazioni di raffreddamento e ricontestualizzazione, per riportare il processo alla luce piana della normalità. Entrano così in gioco oggetti, arnesi, brandelli di metallo, plastiche, fili e impalcature; vengono introdotti una messinscena oratoria e un gioco di quinte e riverberi. Inserita in questo contesto, la placchetta del dagherrotipo è meno conturbante. Per lo spettatore, sospettare che oggetti e materiali coinvolti appartengano ancora alla sfera intima dell’artista; che la grande forbice da sarto arrugginita di una scultura sia quella del padre, che pezzi di mobili appartengano alla storia privata o familiare, poco importa: la loro intrinseca anonimità fa scudo contro ogni possibile scivolamento nel privato, o comunque possono riverbare significati confondibili col privato di ciascuno. A contare, anche in questo contesto, è la dimensione sciamanica elementare del procedimento: l’allestimento di un piccolo altare familiare e il rito apotropaico su oggetti e simboli quotidiani.
Eccoci quindi al cospetto del lessico elementare di Roberto Goffi artista a partire (e per il tramite) dal rito cruento della fotografia. Un’operazione elementare che, cominciando dalla risignificazione del rapporto fondante che determina l’appartenenza biologica e culturale alla catena della vita, si allarga via via al teatro delle amicizie, relazioni e frequentazioni. Arriviamo ai teatrini di questa mostra e al loro racconto intessuto di amicizie, scambi, ammirazioni, attenzioni, letture e riflessioni che dalla cantina, corridoio, cortile e portone di casa, luoghi e termini dove hanno preso il via la vita, la coscienza, le relazioni, il sapere, si allarga alla città, ad altre periferie e ai mille fili che attraversano il mondo. Ecco quindi il doppio ritratto di Francesco Franco e Lea Gyarmati, maestri dell’incisione della scuola torinese (con un sottile spostamento delle proprietà strutturali del dagherrotipo tra una pellicola trasparente e lo specchio della lastra dagherrotipica), quello che celebra il sodalizio tra Carol Rama ed Edoardo Sanguineti, ma poi ecco il ponte ideale tra Emily Dikinson (il cui ritratto viene ricavato da un dagherrotipo d’epoca, matrice dell’iconografia delle poetessa americana) e Barbara Lanati, sua traduttrice, esegeta, biografa ed emula. Ecco infine la messa in posa dinastica di Agostino Re Rebaudengo e Patrizia Sandretto coi due figli, assorbiti gli uni da una storia di Piemonte e proiettati gli altri dagli oggetti di un destino da scrivere, secondo le regole dell’allegoria benjaminiana.
Queste le epifanie che l’animismo silenzioso di Goffi sta mano a mano componendo (ed ecco sostanzialmente giocate le carte concesse all’interprete, conviene non abusare).
Dario Trento   1999

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