“Rivelazioni Barocche”. Palazzo Saluzzo Paesana, Torino 1999

ARS MAGNA LUCIS ET UMBRAE  

COMPLESSITA’ E CONTRADDIZIONI DEL BAROCCO NELLE FOTOGRAFIE DI ROBERTO GOFFI E BRUNA BIAMINO. 
I libri fotografici di architettura possono avere impostazioni differenti. Ciò che hanno in comune è comunque il fatto di costituire e costruire sempre qualcosa di “altro” dall’architettura stessa. Prendiamo ad esempio il recente volume di Milan Pavlìk e Vladimìr Uher sull’architettura barocca di Praga: “Prague Baroque architecture”1. Foto spettacolari per un libro classico, di quelli che si sfogliano pensando a quando sarà possibile andare in vacanza a Praga a vedere dal vero ciò che si sta guardando in foto. Peraltro, chi si occupa di architettura e l’architettura la fotografa anche, sa benissimo che, arrivato a Praga, tutto vedrà tranne ciò che ha visto sul libro. 
Così sono necessarie attente ricerche con il modello fotografico sott’occhio e le condizioni di luce giuste per scovare l’esatto punto di vista delle foto dei castelli valdostani di Ghirri2. E ancora, allo stesso modo, non vedremo mai le periferie delle città come le vediamo nei Cityscapes di Basilico: belle così possono esistere solo nel cuore buio di una macchina fotografica3. Ciò che generazioni di mediocri progettisti non sono state capaci di fare – dare un volto accattivante alle nostre drammatiche periferie – riesce a farlo senza soverchie difficoltà un banco ottico.
Quello dello scarto tra l’architettura e la sua immagine è uno dei primi problemi a venire alla mente quando si riflette sulla fotografia di architettura, perché è evidente che una cosa è l’architettura vera, costruita; altro è quella fotografata. Pure tra le due realtà le connessioni sono molte e a tratti paiono inevitabili. Ciò dipende da quelli che sono alcuni dei tratti costitutivi sia della fotografia che dell’architettura.
La fotografia, in quanto prassi fondata su meccanismi fisico/chimici, non può esistere senza la realtà esterna: senza un mondo da fotografare. La “prima fotografia” di Niepce sarebbe una veduta di tetti: una foto di architettura. E’ chiaro però quanto la fotografia sia comunque sempre ben altro dal mondo e dall’architettura, non foss’altro che per il suo essere priva di quell’attributo fondamentale della realtà che è la terza dimensione.
L’architettura, per contro, in quanto spazio e volume su macroscala, non è riproducibile in scala ridotta e sulle due dimensioni. Ma senza modelli e senza disegni e foto in scala ridotta non è analizzabile. Vien quasi da dire che non se ne potrebbe neppure parlare.
Se è sempre vero, come affermava Zola, che “non si può sostenere di avere visto veramente qualcosa finché non lo si è fotografato”, ciò è ancora più vero, se possibile, quando parliamo di architettura. Quindi fotografia dell’architettura prima di tutto come studio dell’architettura, come analisi e comprensione, come prima percezione.
Un esempio al riguardo potrebbe essere fornito da Domenico Prola, già soprintendente ai beni culturali della Valle d’Aosta e tra i più raffinati conoscitori del barocco piemontese minore. Prola aveva cominciato il proprio approccio all’architettura, come allievo di Mario Passanti, proprio fotografando. Per tutta la sua vita di operatore dei beni culturali ha lavorato attorno al problema della fotografia di architettura e la sua ricerca è culminata in quella serie di immagini, elaborate con Giorgio Jano e Enrico Peyrot, in cui, grazie ad un obbiettivo ipergone, diveniva possibile rendere il tracciato delle volte barocche praticamente senza deformazioni, quasi in proiezione ortogonale4.
Prola era un razionalista, grande amante di Loos. E non era certo casuale questa sua ricerca volta a trovare la quadratura tra la fotografia e il più razionale e diretto tra gli strumenti della rappresentazione grafica, la proiezione ortogonale.
Ma esistono anche altre vie. Accanto e in alternativa alla fotografia come analisi, come ragion pura, la fotografia come giudizio. Col che arriviamo al lavoro di Roberto Goffi e Bruna Biamino.
Prima di discuterne, un’altra digressione sul Barocco.
Mi è capitato, a Roma, di entrare nella chiesa di San Francesco a Ripa in una di quelle strane mattinate di luminosità cangiante in cui grandi nuvole bianche passano veloci e coprono e scoprono il sole mutando continuamente l’intensità e la natura della luce, in un gioco alterno di riflessi e opacità, rilucenze, chiaroscuri. 
La Beata Ludovica Albertoni, sdraiata nella sua estasi mortale sulla tomba altare in fondo alla navata sinistra della chiesa, si accendeva e si spegneva come l’insegna al neon – “Stardust”, “Aladdin” o “Flamingo”- di una fantasmagorica Las Vegas barocca. 
Tutte le infinite tonalità del bianco, del giallo e del rosa, fiorivano sulla superficie di quel marmo, alternandosi ad improvvisi spegnimenti, smorzature scalate su tutte le varianti della scala dei grigi – e dei neri, perché la chiesa è piuttosto buia – appena una nuvoletta copriva il sole. Lo spettacolo era abbagliante. E soprattutto profondamente barocco: morte e trasfigurazione; teatro; e soprattutto luci e ombre. “Ars magna lucis et umbrae”, come avrebbe detto Athanasius Kircher, gesuita e pure lui non poco barocco.
Inevitabile chiedersi fino a che punto Bernini avesse previsto una mattinata come quella. In realtà, se è vero che era quello straordinario regista di spettacoli e progettista di scenografie quale ci appare dalla Santa Teresa della cappella Cornaro come dal colonnato di San Pietro, possiamo tranquillamente ipotizzare una sua progettazione meticolosa degli effetti di luce. E’ molto improbabile che abbia abbandonato al caso anche solo qualche dettaglio.
Uso il termine regìa a ragion veduta. E non a caso pongo l’accento sul problema della luce. Il passaggio alla fotografia – e al cinema – è infatti abbastanza forzato.
Ancora sul Barocco. Riferimenti ad Apollo e Dioniso sono fin banali eppure necessari. Bernini e Borromini, e i loro contrasti, le loro speculari contrapposizioni, il loro riflettersi l’uno nell’altro capovolgendosi e restando comunque sempre irriducibili l’uno all’altro e pure entrambi irrevocabilmente barocchi, non sono certo una posticcia invenzione. Così per ognuna delle loro singole opere. Lo straordinario procedimento che sta alla base della progettazione di piazza San Pietro5 è razionalità pura, cartesiana, anche se volta alla costruzione di effetti di “lucido inganno”. Tanto quanto sono irrazionali l’estasi di Santa Teresa, o la fuga di Dafne da Apollo. 
Il problema è che volendo interpretare il Barocco alla luce della sindrome del Dottor Jekyll e di Mister Hyde non è facile stabilire, tra Bernini e Borromini, chi fosse Jekyll e chi Hyde. Così è tra le molte anime del barocco e per una lunga serie di dicotomie interne al pensiero e alla cultura del Seicento.
Anche le foto di Bruna Biamino e Roberto Goffi potrebbero ricondursi a questa logica di alternativa. E anche qui con curiosi rimandi incrociati. Le foto meno “architettoniche” e più pittoriche sono quelle di Goffi. Che è architetto. Bruna Biamino, fotografa pura, ci offre invece la visione più chiaramente architettonica: prospettive rigorose e razionali; ricerca attenta di assialità e punti di fuga che Goffi invece tende invariabilmente a mascherare e camuffare, ora dietro alle paffute guance di un angioletto, ora nel nero dell’ombra di una volta. 
I cortili e gli androni luminosi di Bruna Biamino sono di solito perfettamente a fuoco, dai primissimi piani fino all’infinito. Le chiese di Roberto Goffi sfocano spesso e volentieri. Che si tratti ora delle candele dell’altare della cappella dei Mercanti, ora delle colonne coclidi di San Francesco da Paola, ora della mano protesa in avanti di un putto o del fregio mistilineo che gli fa da sfondo ai Santi Martiri, sembra che Goffi voglia dare l’idea di una scelta quasi occasionale, se non proprio trasandata, del reale soggetto dell’immagine, che spesso non è quello che appare.
Così, alla cappella del Seminario, il vero soggetto è la gloria di putti reggicandelabro in primo piano (perfettamente a fuoco) o non è piuttosto la Madonna coronata di stelle, sfocatissima sull’altare del fondo?
Attenzione, anche in alcune foto di Bruna Biamino troviamo inganni simili. Nella serrata sequenza dei pilastri di palazzo Paesana il fuoco dell’attenzione sono i pilastri – in fuga verso il tondo a stucco raffigurante la Madonna – o non piuttosto il busto marmoreo che fa capolino, di spalle, da un oculo fuori fuga sulla destra dell’immagine?
Altra contrapposizione – in parte forzata dai soggetti, che però non sono scelti a caso – le tipologie di linee. Le immagini di Goffi sono il trionfo delle curve. Raramente parabole, iperboli, ellissi, sono state tanto paraboliche, iperboliche, ellittiche, come nelle chiese di Goffi. Nelle foto di Bruna Biamino invece niente curve. Goffi fotografa con compassi e curvilinei, circoligrafi, ellissografi; Biamino fotografa con squadra e tecnigrafo.
Sempre sul problema di Jekyll e Hyde prendiamo un tema tipico del barocco: il mondo e la sua rappresentazione. Che rapporto hanno i mappamondi dell’Accademia delle Scienze nelle foto di Bruna Biamino con l’altro mappamondo, quello sotto i piedi di un’allegorica fanciulla nella tomba vaticana di papa Alessandro VII Chigi, anch’esso immortalato in un’altra famosa foto “barocca”, di Antonia Mulas6?
Il mondo, appena scoperto, è già stato interamente “conquistato”, con la spada e con la croce. Ma dove finisce la scoperta per desiderio di conoscenza, quella dei mappamondi dell’Accademia delle Scienze, e dove comincia quella per desiderio di conquista e di possesso – c’è chi dice “di evangelizzazione”, ma il risultato è stato lo stesso -, del mappamondo calpestato della tomba di Bernini? Si badi poi che la figura che lo calpesta è proprio quella della verità, che Bernini aveva già scolpito in una versione ora alla Galleria Borghese. E viene da chiedersi che verità è mai questa che usa il mondo come stuoino mettendoselo sotto i piedi. Pure per Bruna Biamino i mappamondi non sono puri aggettivi, attributi minori, come dimostra il fatto che li ripropone tre volte, una delle quali come soggetto principale.
Anche questo è sempre un problema di luci e di ombre. Il barocco buio e oscuro dei processi alle streghe – che chissà perché leghiamo al Medioevo e che invece furono la meno felice tra le invenzioni del Rinascimento a cui la prima modernità del Barocco restò morbosamente affezionata – e quello luminoso della nascita della scienza moderna.
Allora il nero come colore barocco. E si pensi alla moda: i borghesi di Rembrandt coi loro collettoni bianchi e tutto il resto perdutamente nero.
I neri. Problema fondamentale, fotograficamente parlando, e bella sfida a livello di stampa, su cui si giocano i più alti livelli di qualità. Come avevano capito in pittura Goya e Manet, il primo subito prima, il secondo subito dopo la nascita della fotografia.
Sui neri lavora Roberto Goffi. Coerente con la scelta del nero la sua attrazione per il Barocco più deformato, deforme e deformante, che non va certo scambiata per adesione.
Per Goffi il Barocco è inequivocabilmente l’epoca nera della controriforma, iniziata in un qualche anno tra il rogo di Giordano Bruno e la condanna di Galileo. Un sonno della ragione. E il sonno della ragione – ho sempre in mente Goya – genera mostri. Mostri che però attraggono, pur restando mostruosi, e che comunque è necessario documentare ed esorcizzare. Peraltro questi mostri, spesso, vestono i panni della più assoluta normalità. Della santità, addirittura. Come Roberto Bellarmino, che difatti per la chiesa, nonostante tutto, continua a restare santo e che, a ben guardare, non possiamo non considerare il vero e proprio alter ego, negativo e sulfureo, di Galileo.
Altre volte i mostri barocchi vestono i panni del sadismo. Nella confraternita della Misericordia Goffi immortala il grande albo ligneo dei confratelli che fa da fastigio ad una testa del Battista imbandita sul suo piattino e buttata lì con nonchalance, come se niente fosse, quasi dimenticata sul tavolo. Mi ricorda, su un altare minore della chiesa di Cogne, una graziosissima Santa Lucia che mostra tutta trionfante e sorridente i suoi occhietti infilzati su uno spiedino, come fossero due bocconcini di wurstel.
Abiura o non abiura e nonostante la chiesa, il Barocco è però anche l’epoca di Galileo. E di Cartesio, e Pascal, e Leibniz, e Newton. Il Barocco oscuro, stregato e stregonesco delle chiese annegate nella penombra, si illumina nei palazzi della nobiltà e del potere.
All’opposto del nero, quindi, il bianco. Ma, a parte la rarità del nero assoluto come del bianco assoluto, chi pratica la fotografia sa benissimo che non sono affatto la stessa cosa o due banali estremi. Anzi! Il nero, che in natura è l’opacità al colore, la sua assenza, in fotografia contiene. E’, insomma, la presenza di tutte le immagini possibili. Da una foto nera, schiarendo, qualcosa si riesce sempre a tirar fuori. Il bianco, invece, in fotografia è il vuoto, l’assenza. Dal bianco non si può ricavare nulla. Uno può scurire finché vuole; al massimo otterrà del grigio, non certo un’immagine. Così, sempre fotograficamente parlando, il nero va scolpito con una tecnica michelangiolesca, “per levare”. Il bianco va riempito, composto plasticamente, “per porre”. Come fa Bruna Biamino.
Ho detto che le sue fotografie, quasi tracciate al tecnigrafo, escludono le curve. Sono in compenso il trionfo della prospettiva. Le sue prospettive ricordano quelle di Vredeman de Vries7. Penso agli obelischi o alle colonne del cortile di palazzo Graneri della Rocca, alle fughe di pilastri di palazzo Coardi di Carpeneto come di palazzo Saluzzo di Paesana, alle trombe delle scale di palazzo San Martino della Motta o ancora di palazzo Graneri. L’interpretazione del monumento si traduce in una visione di razionalità e chiarezza quasi didattiche; a volte viene in mente quel vero e proprio principe dei fotografi di architettura che è Eugène Atget.
Costante è la ricerca di punti di vista “oggettivi”; quanto più oggettivi si possa.
Quanto più soggettivi si possa invece i punti di vista di Goffi. La fuga di parete da sotto in su con lo scorcio di volta della sagrestia dei Santi Martiri è inquadrata da un punto difficilmente individuabile. In realtà il punto di vista è posto dentro al lavabo/acquasantiera. E’ un gioco, ma se il lavabo fosse stato un fonte battesimale si sarebbe trattato della prima immagine visibile per un battezzando che guardasse verso l’alto. Della chiesa di Santa Teresa, Goffi ci fa vedere il buio che si percepisce da dietro l’altare. Quella di Santa Chiara ce la mostra da dietro lo scurolo dell’esclusivissimo coro delle monache. Di quella della Santissima Trinità ci mostra i raggi di luce che balenano sopra l’altare maggiore ripresi dall’interno dello stesso altare, a fianco del Crocifisso, stando nella posizione del cattivo ladrone! 
Con Vredeman de Vries siamo nel 1599. I puristi potrebbero osservare che a rigore saremmo prima del Barocco. Anche con Caravaggio saremmo prima. Eppure quando si ripensa ai documenti dei suoi processi, anche a quelli ritrovati solo recentemente, per esempio quello intentatogli dal padrone di casa che lo accusava di aver sfondato il tetto per far entrare dall’alto la luce che doveva illuminare i suoi modelli8, non possiamo non pensare ancora alle foto di Goffi: con quelle luci che piovono dall’alto, da lanterne nascoste chissà dove tra le pieghe di volte e padiglioni; che lambiscono angeli e putti svolazzanti. 
Nelle foto di Roberto Goffi la luce spesso piove dall’alto, come in Caravaggio. In quelle di Bruna Biamino arriva dai lati, come in Vermeer. Altra contrapposizione barocca: il Barocco della Controriforma romana e quello della Riforma calvinista.
Bruno Orlandoni  1999

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