Colore e Bianco e Nero: Tamburelli e Goffi


COLORE E BIANCO E NERO: TAMBURELLI E GOFFI

Studi d’artista che nulla hanno a che vedere con le laccate sequenze di stanze di certe gallerie d’arte contemporanea.  Studi che ci arroventano d’immaginazione: chi li abita? Chi li opera? E che rapporto mantiene con la sua arte? Sono quelli di Giovanni Tamburelli e Roberto Goffi, oppure – last but not least – quello di Carol Rama – tanto amato, fotografato, perlustrato da Goffi, che, in qualche modo, rimanda al suo e a quello di Tamburelli stesso, che vedo solo ora. 
Quello di Goffi, quelli di Goffi, li conosco da tempo: la cantina dove conservava come icone oggetti di ferro e pezzi di legno, frammenti di marmo, pettini, spazzole consunte, cassettiere all’apparenza abbandonate e specchi di varia forma e misura. E poi la sua cascina dove ora vive e che, per una larga sezione, usa per lavorarvi: alcune lattine vuote o piene di colori, schegge slabbrate di gesso. Un miracolo di confusione che dapprima ti allucina, e poi ti fa scivolare in un gorgo di sensazioni, emozioni, domande.  Art brut? Arte dopo l’arte o prima dell’Arte, prima che intorno all’arte del Cinquecento fosse costruito un Canone che i critici osservano con scrupolosa dedizione? Forse Vittorio Sgarbi no. Forse Gillo Dorfles no. E forse neppure Martina Corgnati. Né tantomeno Cristina Iuli che, come nel suo brano introduttivo al presente catalogo attesta, sulla postmodernità la sa lunga e, non a caso, in chiusura, ci ricorda Frate Francesco Toribio Motolinia, uno dei primi dodici religiosi che in Messico, nel 1538, vide le popolazioni  primitive che avevano allestito “piattaforme esterne” tutte d’oro e di opere piumate e ancora foreste popolate di animali vivi e artificiali, una cosa meravigliosa da vedere, la stessa forse che Shakespeare immaginò Prospero e Miranda incontrassero sull’isola misteriosa in cui sbarcarono e nella quale, nonostante lo stupore e la meraviglia, dovevano camminare per provare un effetto naturale. Natura o finzione? Immaginazione o realtà?
Ed è a questo punto che mi congiungo all’incipit del mio intervento. Come non pensare ai dagherrotipi che Roberto Goffi predilige, tra le varie forme figurative, assimilabili, come Dario Trento scrisse nella prefazione al catalogo delle sue opere intitolato Ritratti 98/99, al fondo d’oro in pittura, mimesi della realtà fatta da tangibili trapassi chimici?
Ed eccoci ora entrati nello studio di Tamburelli, nelle sue stanze che, di primo acchito, sembrano antri, nei suoi cortili, nel suo giardino popolato da gufi-libreria in cui sono raccolti, tra gli altri, un numero di Carte Segrete, un catalogo di Helmut Newton, di Carol Rama L’Opera Grafica, Inni e Frammenti (quanto ci tradiscono i libri che conserviamo!), scaffali ricolmi di riviste che sembra vengano lette da curiosi esseri-animali appesi alla parete di fronte, sedie zoomorfe, animali indescrivibili dall’occhio umano, all’apparenza deformi e grotteschi che artificiali ovviamente fanno capolino ovunque dentro le stanze della casa e fuori, tra gli alberi e i cespugli del giardino. 
E su e intorno al lavoro di Tamburelli, quello di Roberto Goffi, al di là di qualsiasi retorica, entra e coglie scorci, frammenti di frammenti di opere spettacolarmente colorate che feriscono lo sguardo per la loro apparente indecifrabilità. Goffi le blocca nelle immagini qui esposte, ma da grande maestro ancora più del frammento, come sopra sottolineavo, è maestro del bianco e nero. Non a caso precisa: “Il lavoro vero comincia nella camera oscura”, là dove l’autore imprime su lastre di marmo o di ottone argentato schegge di frammenti-ricordo, oppure, come nella serie dedicata a Tamburelli, su carta acquerello sensibilizzata. Stupenda, la foto del pittore con il padre poco prima che morisse, così da immortalare una sequenza di secondi che si sciolgono nel passato del nostro artigiano del ferro smaltato che inventa L’uomo volpe dal capo pesante, Zanzare verde palombo, Zanzare dalle lunghe zampe di arpeggio e ancora Un lago di zanzare e Una cornice di merletti azzurri, tutto in ferro e in grandi dimensioni. 
Stupenda, a mio avviso, la Zanzara ingabbiata, enorme, 110 x 60: non è più una zanzara, ma lo è, è un monstrum mirabilis che ci fa scivolare in un mondo mitologico dove, per ricordare Rilke, non è mai l’onnipotenza dell’attività simbolica dell’uomo “a lasciare sgomenti, ma la sua assenza, vedi gli alberi sono, le case che abitiamo/reggono. Noi soli/ Passiamo via da tutto, aria che si cambia”. 
Gufi, lampadari surreali, Tamburelli con un grande gufo alle spalle, animali surreali, cani-lepre con lunghe orecchie, specchio con pesci che riflette lampadari con acuminati ami. Artigiano? Fabbro? Poeta? Turista per caso in una terra deserta, non desolata come la vedeva T.S. Eliot. Una terra semplicemente disertata dall’uomo. Esploratori delle macerie sotto le macerie, Tamburelli e Goffi procedono a una sorta di scavo della crosta terrestre e di ciò che, all’apparenza, vi appare o ne affiora. Sprofondano per scelta in un sistema mitico, la cui funzione semantica – e desidero lasciare ora l’ultima parola a Claude Lévi-Strauss e al suo Pensiero Selvaggio – “consiste nel collegamento che esso opera tra i diversi livelli dei molteplici parallelismi che sostituisce tra i vari ambiti dell’esperienza umana […] Sembra opportuno individuare la peculiarità semantica del mito nella sua capacità di testimoniare che tra ordini diversi (per esempio l’ordine cosmico, quello culturale, zoologico, meteorologico, sociale […]) esiste un preciso isomorfismo […] ciascun mito […] deve essere considerato quale un vero e proprio intercodice destinato per mettere una reciproca convertibilità tra i diversi livelli.”
Barbara Lanati       2016  

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